Il cinema di Robert Zemeckis: Viaggio dell’eroe, Tecnologia e Tempo

Negli ultimi quarant’anni il cinema di Robert Zemeckis si è imposto grazie a un istinto narrativo impareggiabile, unito all’uso pioneristico della tecnologia e all’ossessione per il tempo. Nato a Chicago nel 1952, Robert Zemeckis ha portato sul grande schermo un cinema sognante, dosando con abilità alchemica gli effetti speciali potenziati dal digitale, il rapporto di odio e amore tra uomo e tempo e l’uso originale degli archetipi narrativi. Sono queste le caratteristiche che hanno permesso al cinema di Zemeckis di conquistare il pubblico di tutto il mondo. Facendo leva su questi tre assunti e su un talento narrativo che ha pochi eguali, il regista americano ha attraversato tutti i generi, passando dalla fantascienza al fantastico, dall’avventura al thriller psicologico, dalla commedia al dramma, affermandosi come uno dei registi più influenti degli ultimi quarant’anni. Molte delle sue opere rifulgono come fotogrammi chiave nella breve e intensa storia della Settima Arte. Più di una volta i suoi film, come creature fantastiche, hanno messo radici fuori dalla sale cinematografiche influenzando la cultura di massa e consegnandole in alcuni casi nuovi archetipi. La saga di Ritorno al futuro, Forrest Gump per il quale ha vinto l’Oscar come migliore regista e Cast Away sono i capitoli di una narrazione mitologica del contemporaneo. Il cinema di Robert Zemeckis: Viaggio dell’eroe Il ritorno alla civiltà di Chuck Noland, contemplativo e finalmente sbarbato, dopo quattro anni passati in solitudine su un’isola deserta del Pacifico, e il ritorno al presente nella Hill Valley del 1985 del giovane Marty McFly, dopo un viaggio nel passato dove ha interferito con il Continuum Spazio-Temporale rischiando di essere “cancellato dall’esistenza”, trasmettono un tale senso di rinascita e appagamento che solo l’identificazione profonda con il protagonista di una storia sa regalare. Zemeckis induce lo spettatore a vivere per intero l’esperienza emotiva e introspettiva dell’eroe, a interiorizzarne le paure e in fine a considerarne la trasformazione in positivo come una speranza di crescita personale. Zemeckis ci riesce perché tocca le corde dell’inconscio collettivo che sono dentro di noi. Utilizza in maniera sapiente gli archetipi junghiani, quegli schemi di comportamento istintivo che il padre della Psicologia Analitica riconobbe e formalizzò come patrimonio innato della psiche umana. Lo fa in maniera naturale, perché possiede un istinto innato per la narrazione. Non ha bisogno del memorandum di sette pagine e poi del libro elaborato dallo sceneggiatore della Disney Christopher Vogler ad uso e consumo dei creativi hollywoodiani. Nel 1992 Vogler pubblicò Il viaggio dell’eroe (The Writer’s Journey: Mythic Structure for Storytellers and Screenwriters) semplificando e riorganizzando in 12 fasi e 7 personaggi principali il Monomito, sempre di ispirazione junghiana, dell’antropologo americano John Campbell, che nel 1949 con il saggio L’Eroe dai mille volti (The Hero with a Thousand Faces) rintracciò nei miti, nelle fiabe e nelle leggende provenienti da tutte le culture e le epoche storiche del mondo una struttura narrativa fondamentale e ricorrente. Zemeckis, figlio di padre lituano e madre italiana, non ha bisogno del bignami semplificato e flessibile di Vogler. Già tra il 1984 e il 1990 s’impone come uno dei cineasti più dotati di Hollywood, sfornando successi mondiali: All’inseguimento della pietra verde nel 1984, Ritorno al futuro nel 1985, Chi ha incastrato Roger Rabbit nel 1988, Ritorno al futuro – Parte II nel 1989, Ritorno al futuro – Parte III nel 1990. Nel corso della sua carriera, sia come sceneggiatore che come regista, Zemeckis ha dimostrato una sensibilità unica nel maneggiare con gande originalità gli archetipi narrativi. I suoi eroi vengono strappati al Mondo Ordinario da eventi che vanno ben oltre il consueto immaginario, catapultandoli in avventure che hanno l’aura dell’epica antica perché costellate di prove che nulla hanno da invidiare alle Dodici fatiche di Ercole, al labirinto del Minotauro di Teseo o alla ricerca del Vello d’Oro di Giasone. Marty McFly nella saga di Ritorno al Futuro è costretto a viaggiare tra passato e futuro a bordo di un macchina del tempo per salvare sé stesso e la sua progenie. Chuck Noland di Cast Away finisce su un’isola deserta e disabitata a causa di una tempesta che ha abbattuto l’aereo sul quale volava durante un viaggio di lavoro. La scienziata Ellie Arroway di Contact intercetta un segnale radio di origine extraterrestre e cercherà di mettersi in contatto con gli alieni. Il funambolo Philippe Petit in The Walk stravolge la sua vita per inseguire il sogno di camminare su un cavo d’acciaio appeso tra le Torri Gemelle. Mark Hogancamp di Benvenuti a Marwen si rintana in un mondo di fantasia, un villaggio per bambole, per sfuggire ai traumi di un pestaggio selvaggio. Nonna e nipotino in The Witches dovranno affrontare un intero plotone di streghe malvagie. Come si evince da questi esempi Zemeckis sovente sceglie come antagonista un’Ombra gigantesca. Non solo esseri umani cattivi, avidi e invidiosi, presi singolarmente o come esponenti di un sistema di potere oppressivo ed escludente, ma anche forze naturali a prima vista imbattibili. Con la figura del Mentore, colui che aiuta l’eroe ad affrontare il viaggio, Zemeckis ci ha regalato personaggi indimenticabili. Basti ricordare “Doc” Emmett Brown di Ritorno al futuro, scienziato geniale e stralunato che incarna, seppur momentaneamente la figura dell’Imbroglione perché è lui a ficcare nei guai il giovane Marty, costringendolo ai viaggi nel tempo. E che dire di Wilson, il pallone da pallavolo che Chuck elegge quale amico e confidente per combattere la solitudine sull’isola deserta e mantenere la stabilità mentale, ma che allo stesso tempo rappresenta la proiezione psicologica delle paure più profonde del protagonista, oscillando per questo tra il Mutaforme e l’Ombra. In Contact la dottoressa Ellie Arroway riceve aiuti insperati dal signor Hadden, misterioso magnate che molte nazioni vorrebbero morto, il quale riconoscendo in lei doti oltre la media la prende a benvolere. Discorso a parte merita Forrest Gump, protagonista dell’omonimo film, un giovanotto nato a Greenbow, piccolo paesino dell’Alabama, con un quoziente d’intelligenza sotto la media, che affronta con l’ingenuità di un bambino la storia ipertrofica degli Stati Uniti tra gli anni ’50 e ’90. Armato di pochi ma buoni consigli ricevuti
Brevi recensioni letterarie, senza sconti: Never flinch di Stephen King

Con l’ultimo romanzo, ‘Never flinch’, Stephen King gioca subito a carte scoperte. Il risultato è un’opera meno evocativa e più incentrata sul processo degenerativo che sta investendo la società statunitense. L’America non se la sta passando bene. Gli “Stati Uniti baluardo della democrazia” è poco più che uno slogan sbiadito difronte alle politiche liberticide di Trump. Stephen King, con il suo ultimo romanzo, sceglie la strada dell’opera corale, polifonica, piena zeppa di personaggi, per dar conto su larga scala dell’attuale oscurantismo nel quale è impantanata la prima potenza mondiale. Non è un caso che la storia sia raccontata al presente. Rinunciare al potere evocativo della narrazione al passato appare come un gesto simbolico che sottolinea e rafforza la volontà di denuncia dello scrittore americano. Never flinch – La lotteria degli innocenti, pubblicato nel 2025, è a tutti gli effetti un thriller che ruota attorno alla figura di un serial killer intenzionato a uccidere tanti innocenti quanti sono i giurati che hanno spedito in galera un uomo accusato ingiustamente di pedofilia, morto assassinato in carcere. Un canovaccio che consente di ripescare la figura dell’investigatrice privata Holly Gibney. Never flinch può essere quindi considerato l’ennesimo capitolo del “Ciclo di Holly Gibney” che comprende romanzi e racconti. E infatti non mancano riferimenti agli eventi inquietanti che l’hanno vista combattere contro l’Outsider, creatura leggendaria conosciuta come El Cuco. Never flinch di Stephen King: pro e contro Holly, poco appariscente e dotata di scarsa autostima, si aggrappa al suo formidabile intuito per trarre in salvo sé stessa e gli altri personaggi positivi della storia, mentre il mondo attorno a lei somiglia sempre più a un manicomio a cielo aperto. I mali più virulenti della nazione americana, lontani dall’essere debellati, continuano a squarciare con i loro artigli il tessuto sociale. Il sistema giudiziario, distorto dalla sete di potere dei procuratori, spedisce innocenti in carcere per tranquillizzare l’opinione pubblica. Il fanatismo religioso di matrice cristiana, elemento costitutivo degli Stati Uniti d’Amarica da quando i primi Padri Pellegrini sbarcarono dalla Mayflawor, continua a produrre chiese indipendenti, vere e proprie sette, che lanciano anatemi contro chi difende i diritti civili dello stato laico, soprattutto quelli delle donne, arrivando ad armarsi per uccidere. Tema, tra quelli affrontati nel romanzo, che è forse uno dei più sentiti da King, visto che al termine del libro c’è una lista di uomini e donne assassinati per aver difeso il diritto all’aborto. Ma il fanatismo può essere anche laico. Lo sanno bene i personaggi famosi inseguiti da orde di fan alla caccia di autografi su gadget di ogni tipo, magari da rivendere online per farci un po’ di grana. Anche l’attivismo per i diritti civili ha il suo lato oscuro, quando tracima nell’egocentrismo. Lo stesso si può dire del mondo dell’informazione quando si trasforma in sciacallaggio mediatico. In Never Flinch l’America è una pentola a pressione che sfiata minacciosa ed è sul punto di esplodere. Un magma parossistico nel quale non possono mancare alcuni dei temi più ricorrenti dell’opera letteraria di King. Le dipendenze sono la via di fuga da una realtà inospitale, una piaga sociale che uccide lo spirito prima del corpo. La famiglia è il luogo più pericoloso per i minori se abitata da genitori frustrati e violenti, e quindi fucina di nuovi individui disturbati. Messi assieme, tutti questi reagenti dovrebbero fare dell’ultimo romanzo di King una miscela carica di tensione, e in parte ci riescono, ma la voce del grande scrittore americano appare un po’ appannata. Se c’è un’abilità, tra le tante, che gli va riconosciuta è quella di saper evocare la malvagità attraverso suggestioni da brividi, scegliendo con cura ogni singola parola e immagine per solleticare la fascinazione che il male esercita sulla natura umana, prima di disvelarne in modo indimenticabile l’abbagliante oscurità. Ma in Never Flinch sono davvero poche le scene al cardiopalmo, quelle da leggere in apnea. King mostra subito le sue carte riducendo al minimo le occasioni in cui i capelli del lettore si drizzano dalla paura. In compenso ci si ritrova difronte all’affresco potente di una nazione in preda a un processo di regressione culturale, dove le poche cose da salvare – sembra dirci King – sono la musica e la poesia. Uno dei pochi momenti in cui l’inaspettato che fa orrore si materializza con un tocco di soprannaturale lo ritroviamo nelle ultimissime righe del romanzo, in un finale che sembra dare appuntamento a una nuova avventura di Holly Gibney. Testo di Michele Lamonaca Riproduzione riservata
Il viaggiatore del giorno dei Morti di Simenon: un coro magistrale di “lupi e pecore”

Simenon nel romanzo ‘Il viaggiatore del giorno dei Morti’ racconta lo scontro tra il giovane Gilles e la borghesia famelica di La Rochelle Pubblicato nel 1941, Il viaggiatore del giorno dei Morti è un “romanzo duro” di Simenon. Un romanzo di formazione che ha come protagonista il diciannovenne Gilles. Dopo aver girovagato per l’Europa assieme ai genitori, il ragazzo sarà chiamato ad affrontare il mondo spietato degli adulti, che il ricco Babin divide in “uomini e pecore”. Magrissimo e dinoccolato, Gilles sbarca nel porto di La Rochelle alla vigilia del giorno dei Morti. Immerso nella nebbia giallastra della banchina, ignora il rispetto e il timore che gli abitanti della ricca cittadina di mare dedita al commercio tributano al suo cognome. Non sa ancora d’essere l’unico erede di un’immensa fortuna. Quella accumulata dallo zio Octave Mauvoisin, uomo d’affari cinico e spietato. Ma lo scoprirà subito, il giorno dopo il suo arrivo. A questo punto la fortuna sembra finalmente irrompere nella vita del giovane Gilles che ha perso da poco i genitori, entrambi artisti nei circhi e nei teatri di varietà, morti asfissiati in un albergo di Trondheim dalle esalazioni di monossido della stufa. Oltre all’azienda di autotrasporti e alle quote azionarie delle aziende più importanti della provincia, erediterà degli incartamenti molto speciali. Documenti compromettenti, prove inconfutabili con cui lo zio Octave teneva sotto scacco rivali e politici, rei impuniti di colpe ignominiose. Un mucchio di avidi ipocriti, riuniti nel famigerato “Sindacato” per far quadrato contro chiunque provi a intralciare i loro affari. Faranno lo stesso con Gilles cercando di circuirlo, sicuri della sua ingenuità e inesperienza. Ma Gilles non è un allocco e quando decide di allontanarli, proveranno a sabotare il suo impero economico. Per nulla intimorito, il ragazzo accetterà lo scontro e allo stesso tempo dovrà far chiarezza nel suo giovane cuore dibattuto tra l’infatuazione per una ragazza del posto e l’amore inconfessabile per la giovane sposa del defunto zio Octave. Il viaggiatore del giorno dei Morti di Simenon: pro e contro Simenon, con la maestria del grande giallista quale è, aumenta la tensione con una vicenda giudiziaria che metterà nei guai prima l’amante e poi la stessa vedova Mauvoisin sui quali pende l’accusa di omicidio. La penna dello scrittore belga racconta con ironia e realismo la vita brulicante nelle strade nebbiose di Rochelle. Alla stregua di un pittore di consumata esperienza e grande talento, gli bastano poche pennellate per materializzare negli occhi del lettore vizi e virtù della borghesia alta e piccola. Gli bastano un gesto, una smorfia, ma anche un dettaglio dell’abbigliamento per scolpire con l’accuratezza di un cesellatore l’indole dei personaggi. Ma Simenon sa bene che la loro caratterizzazione passa anche e soprattutto attraverso la parlata. Ed ecco che con grandissima abilità ci regala una variazione diastratica degna di uno splendido coro a più voci, il gioiello nascosto tra le righe del romanzo per raccontare il microcosmo borghese affaccendato nelle strade di La Rochelle. Simenon riproduce con magnifico realismo il tono viscido e lascivo di Babin, ricco imprenditore dedito ai piaceri della tavola e della carne. Con la stessa facilità tiene conto della sfrontatezza e della superficialità con cui si esprime un giovane perdigiorno, cugino di Gilles, che ha come unica missione quella di sperperare denaro nelle bettole e sui tavoli da gioco. Questi sono solo due esempi della varietà di voci che anima e colora il romanzo. Ma lo scrittore belga non si ferma qui. Con un’invenzione efficacissima riassume il pomposo, vacuo e cerimonioso conversare dei borghesi arrivando a stilizzarlo e a esemplificarlo più volte quando usa le virgolette del discorso diretto per racchiudere frasi cariche di formule solenni e di cortesia, tra le quali è necessario rovistare per cavarne fuori le informazioni che davvero contano. Le frasi sono spezzate a metà dai punti di sospensione, che simboleggiano perfettamente l’inutile prolissità dei ragionamenti da cui sono state estrapolate. Con mano sicura, Simenon ingarbuglia e sbroglia l’intreccio, che procede sicuro come un treno nella notte, sulle note di una prosa che ha l’eleganza di un abito da sera e la precisione del bisturi. Gilles affronterà in tempi stretti un percorso di maturazione che lo porterà a scegliere tra una vita agiata ma prigioniera dei soldi e l’esistenza libera degli artisti, già assaporata assieme ai genitori, trascinandoci in un viaggio avvincente tra vizi e virtù di un’epoca risalante alla metà del secolo scorso che condivide con la nostra molto più di quanto si possa immaginare. Testo di Michele Lamonaca Riproduzione riservata
Brevi recensioni letterarie, senza sconti: Il gioco di Gerald di Stephen King

Il gioco di Gerald di Stephen King è un viaggio nelle sinapsi di Jessie, la protagonista del romanzo. Un’opera tagliente e sofisticata contro il dogma del maschiocentrismo. Pubblicato nel 1992, Il gioco di Gerald di Stephen King è un viaggio nelle sinapsi di Jessie, la protagonista del romanzo. Tra le abilità dello scrittore americano, c’è senza dubbio quella di dissezionare la psicologia dei personaggi con la stessa abilità di un medico legale alle prese con un corpo senza vita. Nella costruzione del personaggio Jessie Mahout, moglie dell’avvocato Gerald Burlingame, King offre un esempio superbo di questa sua capacità. Le voci di dentro che si affollano nella mente di Jessie sono tante quanti i tratti della sua personalità. Suggeriscono, ammoniscono, si scontrano tra loro orchestrando un contrappunto sempre più drammatico. La Brava Mogliettina Burlingame è una donna senza spina dorsale. È la Jessie che ha rinunciato al gratificante lavoro di insegnante su richiesta del marito per meri motivi fiscali, sprofondando nell’apatia di una vita agiata. Ruth Neary è la compagna del college che si fa portavoce della Jessie insofferente al conformismo e alle ingerenze del marito. Frugolino è la Jessie bambina in camicia da notte molestata dal padre quando aveva solo dieci anni. Soprattutto queste tre, assieme alla altre “voci ufiche” alloggiate nella mente della protagonista, assisteranno Jessie, ognuna a suo modo, come navigatrici e copilote nella corsa contro il tempo che scatta quando il gioco erotico voluto da Gerald prenderà la forma di un incubo. Una gara di velocità che ha come premio la salvezza dalla morte per inedia, disidratazione, pazzia e dalle altre inimmaginabili tragiche eventualità che possono strappare la vita a una donna prossima ai quarant’anni, ammanettata a letto, nella casa al lago isolata dal resto del mondo, in compagnia del cadavere senza vita del marito. Il gioco di Gerald di Stephen King: pro e contro La mente di Jessie è come un’auto da rally, con a bordo le “voci ufiche”, lanciata all’impazzata su un percorso disseminato di ostacoli micidiali. Cambi di direzione così repentini da stravolgere le convinzioni più profonde, rettilinei talmente estenuanti da mettere a dura prova la stabilità mentale, curve a gomito che nascondono ricordi angoscianti e presenze inquietanti. Rendere conto del dissesto sia mentale che fisico scatenato dalla trappola in cui si ritrova Jessie, mantenendo sempre alto l’interesse del lettore, richiede grande controllo della scrittura. Controllo che King a tratti, nelle prime pagine del romanzo, sembra perdere di vista. La storia parte con fatica, non carbura subito. A volte il rimuginio della protagonista si avvita così tanto da risultare di difficile comprensione. Ma una volta preso l’abbrivio, King procede spedito e sicuro tra i ricordi, le paure e le soluzioni escogitate da Jessie per trarsi in salvo, sebbene in alcuni casi i battibecchi tra le voci interiori appaiano ridondanti. Altro aspetto rimarchevole è come King sappia vestire i panni del neuroscienziato, tenendo traccia scrupolosa del dialogo inesauribile tra sentimenti, sensazioni e biochimica del corpo umano. L’eclissi solare totale del 20 luglio 1963 incombe costantemente come uno spauracchio. Il sole che si spegne è il simbolo dell’oscurità piombata nella vita di Jessie in quello stesso giorno, quando subì le molestie sessuali di suo padre Tom. Simbolo presente nel romanzo Dolores Claiborne, che in origine, con Il gioco di Gerald, avrebbe dovuto formare un’opera unica. Di qui la spiegazione, rimasta inevasa nel romanzo, della visone telepatica che Jessie ha durante l’eclissi. La donna che vede inginocchiata davanti alle assi spezzate di un pozzo è proprio Dolores, anche lei costretta a vivere un momento terribile mentre il sole in alto si riduce a uno spaventoso buco nero. Jessie, debilitata dalla mancanza di acqua e cibo, combatte per salvarsi la vita, ma le riesce sempre più difficile distinguere la veglia dal sonno, lo stato cosciente dal sogno. Mentre lo stato allucinatorio si aggrava, nella camera da letto che è diventata la sua prigione avvertirà una presenza oscura. Una “forma”, immobile, silenziosa, terrificante. Jessie vacillerà pericolosamente sull’orlo della pazzia. La verità celata dietro la presenza minacciosa supererà ogni immaginazione, imponendo alla storia uno snodo narrativo imprevedibile e altrettanto agghiacciante. Il gioco di Gerald, che appartiene alla cosiddetta Trilogia delle donne di King assieme ai romanzi Dolores Claiborne e Rose Madder, è un’elegante messa in scena dei danni inflitti al libero sviluppo delle donne dalla cultura maschiocentrica, un’interferenza costante che infetta la psiche dei due sessi. Il risultato è un rapporto di subalternità della donna rispetto all’uomo talmente pervasivo da essere scambiato per un dogma. Imprigionate in questa dipendenza le donne inventano e si addossano colpe inesistenti per non ammettere che il vero orco è l’uomo che hanno difronte; rinunciano alla realizzazione personale per stargli accanto; non vengono ascoltate, specie quando le loro parole mettono in dubbio o sovvertono le convinzione del maschio. Jessie accetta il gioco erotico non tanto per piacere personale quanto per soddisfare suo marito, ma quando gli dice chiaramente che non ne ha più voglia, Gerald non l’ascolta, finge di non capire, e prosegue materializzando il pericolo di stupro. Questo è solo uno dei tanti momenti che spingono Jessie a prendere coscienza delle menomazioni che le hanno inflitto gli uomini più importanti della sua vita e che fanno di questo romanzo una denuncia tagliente e sofisticata del maschiocentrismo. Testo di Michele Lamonaca Riproduzione riservata
Libri nel mondo, cosa leggono i Francesi: la regina di Francia è americana

Impressionante strapotere della McFadden con i suoi thriller casalinghi, poi spazio a un totem nazionale come Asterix e alle voci più incalzanti dell’estrema destra. Ecco cosa leggono i francesi. Tra dati di vendita e classifiche si rimane a bocca aperta difronte al successo che la scrittrice americana Freida McFadden, che tra l’altro è uno pseudonimo, sta riscuotendo in terra francese, dove nel 2024 il suo romanzo The Housemaid ha venduto la bellezza di 603 mila copie. La Femme de ménage, come da traduzione francese, è solo il primo di un ciclo che oggi conta altri tre romanzi, tutti incentrati sulla figura di Millie, giovane donna con un passato travagliato, che dopo aver perso il lavoro in seguito a un incidente, si reinventa governante finendo per lavorare in famiglie benestanti e apparentemente felici, che in realtà nascondono segreti agghiaccianti. Sempre in riferimento al 2024 si calcola che tutti i titoli tradotti dell’autrice fino a quel momento, ovvero i primi tre tomi della serie La Femme de ménage più il romanzo La psy (Never lie), abbiano venduto in Francia 1,9 milioni di copie e che attualmente le vendite per l’autrice americana procedano al ritmo di 50.000 copie a settimana. Numeri impressionanti per la McFadden che è riuscita ad imporsi in uno dei mercati librari più importanti d’Europa. Secondo la Federazione degli Editori Europei (FEP) nel 2024 la Francia è il terzo mercato per fatturato dietro Germania e Regno Unito. In base ai dati raccolti dalla GfK Entertainment, nello stesso anno in Francia sono state vendute 315 milioni di copie, escludendo libri scolastici, l’usato, gli e-book e la piccola editoria non tracciata. Rispetto al 2023, l’intero comparto ha segnato una flessione del 3,1%. Nulla di preoccupante per il Sindacato Nazionale dell’Editoria (SNE), almeno per il momento, poiché il fatturato rimane superiore a quello del 2019, l’anno pre-COVID utilizzato come termine di paragone nello studio delle vendite. Vendite trainate dal successo di romanzi rosa, gialli e tascabili. Nel 2024 la letteratura ha visto i suoi ricavi aumentare del 5,7%. Nella Terra dei Lumi rimane quindi il settore editoriale principe con una quota di mercato del 24%, davanti a graphic novel, fumetti e manga (16%) e libri per bambini (13,4%). A seguire scienze umane e sociali (12,6%), libri pratici (12,4%) e dall’editoria educativa (10,6%). Cosa leggono i Francesi, la classifica più recente: strapotere McFadden, soffia forte il vento dell’estrema destra Nella classifica generale del 2024 la McFadden si è piazzata prima con La Femme de ménage, mettendosi alle spalle il romanzo storico La sage-femme d’Auschwitz di Anna Stuart, e poi Un animal sauvage e Angélique, due thriller scritti rispettivamente dallo svizzero Joël Dicker e del francese Guillaume Musso, entrambi maestri del genere. Visualizza questo post su Instagram Un post condiviso da Freida McFadden (@fmcfaddenauthor) L’ultima classifica dei libri più venduti, che va dal 27 ottobre al 2 novembre 2025, conferma lo strapotere della McFadden, che ormai si fa dilagante. Nella top ten la scrittrice americana si piazza con la bellezza di sei titoli, occupando seconda, terza e quarta posizione, e poi sesta, ottava e nona. A strapparle la prima posizione è il fumetto Asterix in Lusitania, volume numero 41 della storica striscia ideata da René Goscinny e Albert Uderzo, orgoglio nazionale che tiene alto l’onore della Franca difronte all’invasore straniero. Un fenomeno che ha sbalordito anche Karine Forestier, traduttrice francese della McFadden. “Il successo supera qualsiasi cosa abbia mai sperimentato altrove”, ha raccontato in un’intervista. “Nessuno se lo aspettava, e nemmeno io”, confessa la Forestier che di thriller ne ha tradotti parecchi. Ma questo “molto più velocemente” perché “dal punto di vista stilistico, è letteratura aeroportuale”. La McFadden in quanto neurologa, osserva ancora la Forestier, “capisce come funzionano la frustrazione, l’impazienza e poi la ricompensa“. Abilità che si tramuta in elementi narrativi accattivanti, pieni di snodi e colpi di scena. Con l’aggiunta di una scrittura semplice la scrittrice americana ha sfornato un ricetta vincente, dato che “molte persone che di solito non leggono ne sono affascinate”. Anche il marketing editoriale, tempestivo e avveduto, ha reso possibile questo miracolo letterario. The Housemaid, pubblicato nel 2022, è stato tradotto in francese nel gennaio 2023 e promosso anche in formato tascabile nella seconda metà del 2023. A questo si è aggiunto un fattore ormai non più trascurabile, il passaparola sui social, leva potente che in un click può rendere virale qualsiasi prodotto. TikTok, Instagram e blog di lettura hanno fatto da cassa di risonanza spedendo per direttissima la McFadden in cima alle classifiche d’Oltralpe. Visualizza questo post su Instagram Un post condiviso da Jordan Bardella (@jordanbardella) Gli altri due libri che completano la top ten più recente dimostrano quanto il vento di estrema destra stia soffiando forte in terra francese. Al quinto posto troviamo Ce que veulent les français di Jordan Bardella, eurodeputato e presidente del Rassemblement National, ex Front National, partito fondato da Jean-Marie Le Pen. Bardella, di chiare origini italiane, ha solo 30 anni ma ha già un consenso schiacciante all’interno del partito, che lo vede come candidato ideale alle prossime presidenziali. Vederlo salire all’Eliseo non è affatto un’eventualità lontana. Gli ultimi sondaggi danno il Rassemblement National come primo partito di Francia con il 32% delle preferenze, mentre il Nuovo Fronte Popolare, l’alleanza dei partiti di sinistra, è dato al 25%. Dopo il grande successo ottenuto con il suo primo libro Ce que je cherche, che ha venduto oltre 230 mila copie, Bardella è tornato in libreria con un raccolta di memorie, “un vero e proprio diario intimo di una Francia laboriosa, umile e spesso silenziosa”. La presentazione del libro riflette la visione nazionalista e sovranista di cui si è fatto portavoce. Per quasi un anno Bardella ha attraversato il Paese ascoltando persone di ogni estrazione sociale, riuscendo così a raccogliere “le loro lamentele, la loro rabbia profonda”. Il libro è “uno specchio che riflette un popolo dimenticato, la voce autentica di una Francia che le élite disprezzano e si rifiutano di ascoltare”. In decima posizione troviamo La messe n’est pas dite di Eric
Brevi recensioni letterarie, senza sconti: I folgorati di Susanna Bissoli

Dopo una lunga pausa Susanna Bissoli torna al romanzo con “I folgorati”, opera che contiene la promessa non mantenuta di trattare con ironia la convivenza con un male terribile e le incomprensioni familiari. Tra le promesse della sinossi e il contenuto dell’opera letteraria c’è una distanza incolmabile che lascia insoddisfatti. Pubblicato nel 2024, “I folgorati” è il ritorno alla forma romanzo di Susanna Bissoli, dopo tredici anni di silenzio. Un’opera che prende slancio da spunti autobiografici per trattare questioni ad alto dosaggio drammatico. Vera scopre una recidiva del cancro al seno, malattia che ha già colpito mortalmente la madre e altre donne della famiglia. Il padre Zeno si offre di ospitarla nella casa dove l’uomo vive solo da anni. La protagonista accetta. Tornare nella casa dove è cresciuta è un salto nel passato, nei ricordi di una vita precedente, mentre cerca di dare un senso a quella presente e futura, portandosi dietro il sogno mai sopito di diventare una scrittrice. Nel suo percorso di riavvicinamento a Zeno, Vera dovrà confrontarsi con la sorella minore Nora, la nipotina Alice, e Franco, un fidanzato incapace di starle accanto nei momenti più difficili. Come si sopravvive a una grave malattia, le incomprensioni familiari e più nello specifico la necessità di riallacciare con un genitore i rapporti deteriorati dalla distanza sono i temi centrali della storia. Questioni che bastano e avanzano per incorrere in un melodramma strappalacrime se manca l’accortezza di un punto di vista originale che alleggerisca e allontani la trama dalle secche di una tediosa cronaca del dolore. I folgorati di Susanna Bissoli: pro e contro Per riuscire nell’impresa non può bastare il potere taumaturgico della scrittura che ammalia Vera e suo padre Zeno. Serve uno strumento molto più potente, l’ironia, risorsa imprescindibile e dono dell’intelletto per superare i momenti più funesti. Infatti la sinossi annuncia “un romanzo dalla grazia rara che sa tenere insieme il riso e il pianto, perché l’ironia è la chiave di tutte le salvezze”. Una promessa non mantenuta. La voce narrante di Vera, anche nelle scene che dovrebbero risollevare l’animo dei protagonisti e del lettore, trasmette una sensazione di distacco. A volte sembra di ascoltare un estraneo che osserva le vicende dall’esterno facendo attenzione a non farsi coinvolgere più di tanto. L’uso della paratassi, di frasi brevi che sembrano sospese nel vuoto come oggetti in un quadro di Magritte, aumenta la neutralità di Vera e complica l’empatia tra lettore e protagonista, che stenta a decollare avverandosi di rado. È un “susseguirsi di dialoghi intensi, esilaranti, veri” annuncia ancora la sinossi, centrando in parte un aspetto rilevante del romanzo. Susanna Bissoli dà larghissimo spazio ai dialoghi, dimostrando grande abilità nel costruirli e nel renderli credibili. Ma di esilarante c’è poco o nulla, salvo considerare come tale la parlata in dialetto veneto di Zeno, che sarebbe come dire che le commediole cinematografiche di adesso fanno ridere perché i personaggi si rimbeccano parlando in romanesco. I folgorati sono i sopravvissuti alla scarica di un fulmine. Dal quel momento sanno e sentono di non essere più gli stessi, e che la scarica elettrica ha lasciato il segno. Metafora azzeccata dei sopravvissuti a una malattia potenzialmente mortale, che però rimane accennata, poco esplorata pur contenendo il seme di una visione più corale e utile a sdrammatizzare. Ma l’umorismo, almeno in questo caso, non sembra appartenere alla Bissoli. Il mondo raccontato dall’autrice appare asettico come una stanza d’ospedale, rigido come una serata invernale, e nell’insieme la lettura procede fino alla fine con pochi sussulti che lasciano il segno. Testo di Michele Lamonaca Riproduzione riservata
Brevi recensioni letterarie, senza sconti: Spilli di Greta Olivo

Il romanzo “Spilli, pubblicato nel 2023, segna l’ottimo esordio della giovane Greta Olivo. Trattandosi di un’opera prima, sorprende la sicurezza con la quale la scrittrice maneggia gli attrezzi del mestiere. Livia vive a Roma in una famiglia sana, felice. È un talento dell’atletica, giovanissima, con due occhi azzurri che incantano, ma si vergogna degli occhiali. Soffre di una miopia che peggiora a ritmo serrato. Un segno che desta preoccupazione. Sulla famiglia di Livia aleggia l’ombra dell’ereditarietà legata a una malattia degenerativa che non lascia scampo e che ha colpito il nonno della ragazzina. In campeggio il desiderio di sostituire gli occhiali troppo spessi con le lenti a contatto rubate all’amica della madre le provoca una brutta congiuntivite, un problema risolvibile con i medicinali. Ma durante la visita medica arriva una seconda diagnosi, inattesa e implacabile: retinite pigmentosa. La paura covata in silenzio diventa realtà. Livia è destinata a diventare cieca, è solo questione di tempo. Spilli di Greta Olivo: pro e contro La scrittura di Greta Olivo bada al sodo, con una prosa senza manierismi, priva di passaggi forzatamente letterari. La storia è raccontata in prima persona da Livia. Scelta coraggiosa della scrittrice esordiente perché richiede grande padronanza nella caratterizzazione della voce narrante. Una sfida vinta dalla Olivo grazie alla paura condivisa con la protagonista. Anche lei ha convissuto con il timore di perdere la vista, come è accaduto a suo nonno, e ha quindi sfruttato questa sua esperienza come base di partenza per il romanzo. Al liceo la vista di Livia peggiora. Macchioline scure e tonde come teste di spilli invadono progressivamente il campo visivo della ragazzina. La Olivo ci aiuta a vedere con profonda compenetrazione ed efficace realismo come cambiano i gesti quotidiani e cosa può accadere nell’animo quando la funzione sensoriale più importante si spegne lentamente, nell’attesa angosciante che scompaia del tutto. Livia vivrà un periodo di scoramento, costretta a rinunciare a gran parte delle esperienze che le sue coetanee possono e devono concedersi. Decide di iscriversi in un centro riabilitativo dove s’impara a leggere il Braille e a camminare con il bastone. Qui incontra un istruttore anche lui ipovedente, che la prenderà in custodia insegnandole tutto ciò che serve per muoversi in autonomia nel buio. Per Livia ha inizio un percorso tormentato di consapevolezza e rinascita. Il risultato è un romanzo di formazione che avvince e convince, in cui la protagonista affronta una prova durissima, innanzitutto con sé stessa, rammentandoci che c’è luce anche nella peggiore delle oscurità. Testo di Michele Lamonaca Riproduzione riservata
Brevi recensioni letterarie, senza sconti: Dolores Claiborne di Stephen King

Dolores Claiborne di Stephen King è la confessione accorata e travolgente di una donna che ha combattuto con i denti per difendere sé stessa e i suoi tre figli, arrivando a commettere un crimine efferato. Come può un lettore non innamorarsi di Dolores Claiborne, donna prossima ai sessantasei anni, forte, intelligente, e talmente coraggiosa da dire sempre ciò che pensa. Il romanzo di Stephen King che porta il nome della protagonista è stato pubblicato per la prima volta nel 1993 e appartiene alla cosiddetta “Trilogia delle donne” con “Il gioco di Gerald” e “Rose Madder”. Dolores parla come mangia. Usa un linguaggio popolare, a volte simpaticamente triviale. Non azzecca un congiuntivo e un condizionale nemmeno per sbaglio. Ma non le fanno difetto intelligenza, sensibilità e ironia che trovano forma in una gragnuola di paragoni e analogie irresistibili per sagacia e creatività. Ascoltarla è un’esperienza avvincente. Una fortuna per i due sbirri accompagnati da una giovane stenografa, che hanno il compito di raccogliere la sua deposizione. Dolores è sospettata di aver ucciso Vera Donovan, donna estremamente ricca per la quale ha lavorato come governante fino al giorno della sua dipartita. Il romanzo è il racconto in prima persona della vita Dolores. Anzi, una confessione e uno sfogo necessari per dimostrare la sua innocenza e per togliersi dallo stomaco un rospo impossibile da digerire Dolores Claiborne di Stephen King: pro e contro King possiede un’abilità disarmante nell’inventare similitudini e metafore, attinenti al contesto diegetico come quadri di una casa abbinati perfettamente al resto dell’arredo. Attraverso la voce di Dolores Claiborne da sfoggio del suo talento con prodigalità torrenziale. Una voce che non ammette intrusioni. King abolisce fin dal principio il diritto di parola dei due poliziotti. I loro interventi e le loro domande si possono solo intuire indirettamente, attraverso le risposte della protagonista. Dolores quasi ammutolisce quelli che dovrebbero metterla sotto torchio, in nome della sua età e in virtù del fatto che conosce entrambi da quando riempivano i pannolini e avevano il moccio al naso. Fin dall’inizio la protagonista si prende la scena e non la molla più per dar fondo alla confessione di una donna che ha combattuto strenuamente per difendere sé stessa e suoi tre figli. Sull’isola di Little Tall, altra creazione di King piazzata manco a dirlo a poche miglia dalle coste del Maine, le mogli sono appendici di mariti ubriaconi e frustrati. Accettano il ruolo di vittime sacrificali; incassano in silenzio maltrattamenti e percosse che nella comunità isolana più che indignazione sollevano pettegolezzi. Ma Dolores non è tipa da farsi mettere i piedi in testa da nessuno. Nemmeno dal suo Joe, sposato troppo in fretta quando erano poco più che adolescenti, per abbandonare il nido familiare e provare l’ebbrezza della libertà. Dolores confessa subito ai due poliziotti quello che tutti sull’isola sospettavano. È stata lei a uccidere suo marito. E da quel momento parte un racconto indimenticabile. Un trattato sulla condizione della donna nella provincia americana, impreziosito dal rapporto di odio e amore con la ricca bisbetica Vera Donovan, anche lei custode di un tragico segreto. La narrazione si tinge di mistero per gli eventi che si verificheranno prima e dopo l’assassino di Joe, messo in atto durante l’eclissi solare totale del 20 luglio 1963, evento astronomico realmente avvenuto, che di per sé è già inquietante. La trama registra quello che in apparenza sembra un passo falso di King, e un episodio che trova spiegazione nella genesi del romanzo. La salma di Joe non può stringere tra le mani un lembo della sottoveste di Dolores, perché lo strappò è avvenuto prima che l’uomo tentasse disperatamente di salvarsi. Ma alcuni esegeti del Maestro sostengono che si tratti di un scelta deliberata per sollevare dubbi sulla memoria di Dolores. Poi c’è la visione telepatica della bambina che cerca i suoi vestiti sotto il letto, momento che ha la verosimiglianza palpabile di una trasmigrazione corporea. La visione rimane senza spiegazione, ma è collegata al romanzo “Il gioco di Gerald” che assieme a “Dolores Claiborne” avrebbe dovuto dar vita a un’unica opera, in quelle che erano le intenzioni iniziali di King. Per il resto ci troviamo difronte a uno lavoro che a ragione può essere considerato tra i migliori dello scrittore statunitense. Testo di Michele Lamonaca Riproduzione riservata
Brevi recensioni letterarie, senza sconti: L’ora di greco di Han Kang

Il romanzo ‘L’ora di greco’ della scrittrice coreana Han Kang è un’opera carica di lirismo che affronta un tema inesauribile e altrettanto centrale: il linguaggio come straordinario strumento di conoscenza e come terribile riflesso della nostra vulnerabilità. Un uomo e una donna di cui non sapremo mai il nome. Due esistenze che fuggono via come rette parallele, destinate a incrociarsi solo ed esclusivamente nel corso della lezione di greco antico, in un’accademia privata di Seul. Lui, il docente, ha gravi problemi alla vista ed è destinato a diventare cieco. Lei, l’allieva, è un’ex insegnante afflitta da mutismo psicogeno. Il tema centrale del romanzo ‘L’ora di greco’, pubblicato per la prima volta nel 2011, è il linguaggio, con i suoi benefici e le sue controindicazioni. Han Kang stessa lo ha definito “quasi un lieto fine” del romanzo ‘La vegetariana’. Per mezzo dei due protagonisti la scrittrice coreana, premio Nobel nel 2024, da fondo a una dissertazione sulla facoltà cognitiva che assieme al pensiero fa degli esseri umani ciò che sono, distinguendoli nel regno animale. L’ora di greco di Han Kang: pro e contro La costruzione letteraria non rinuncia alla corporeità dei due protagonisti. Ma assieme all’argilla, la loro creatrice usa in sovrabbondanza un registro altamente lirico che accompagna riflessioni fin troppo cerebrali, limitando l’autenticità dei personaggi. Procedendo nella lettura l’impressione è che alla Kang dei protagonisti, lasciati non a caso senza nome, interessi principalmente ciò che rappresentano, ovvero le sfaccettature del nostro rapporto con il linguaggio. Scelta che priva il romanzo di una vera e propria trama, motore propulsivo di qualunque storia. Un’assenza che si fa sentire e che costa fatica mentre si procede attraverso ricordi e riflessioni, che pure contengono splendide epifanie sul legame magico che unisce la materialità del suono e del segno grafico al significato. Lui ha lasciato la famiglia per tornare in Corea del Sud, dove ha vissuto l’infanzia prima di essere costretto suo malgrado a trasferirsi in Germania. La lingua madre, quindi il linguaggio, per il protagonista maschile è il ritorno all’infanzia nella sua vera patria dove non è più uno straniero dall’accento incomprensibile; è il senso di appartenenza come antidoto contro la solitudine e l’emarginazione; è il riappropriarsi di un’esistenza spaccata in due. Lei, fin da bambina, ha mostrato un’alta sensibilità verso il linguaggio, sviluppando con questi un rapporto nevrotico che già al liceo le ha causato un episodio di mutismo psicogeno da cui si è tratta in salvo attraverso una lingua straniera, il francese. La maturità ha portato con sé la morte della madre e il mancato affidamento del figlio strappatole via dal marito. Due traumi che l’hanno rituffata in un abisso di silenzio. Tra le strade umide, maleodoranti e rumorose di Seul, sembra muoversi in una campana di vetro. Ha perso le parole che servono a dare un nome alle cose, a scrivere il monologo interiore che serve a tutti noi per elaborare gli accadimenti. I ricordi e le immagini che corrono nelle mente perdono senso e contesto. Diventano frammenti slegati. Le relazioni interpersonali si fanno impossibili. Le emozioni si staccano dal corpo come pittura scrostata dai muri. Sceglie il greco antico nella speranza che risulti medicamentoso come all’epoca lo fu il francese. Sceglie una lingua che le è completamente estranea e quindi incapace di trascinarsi dietro il passato. Una lingua vergine, metafora di un nuovo inizio. L’incontro con l’insegnante, altrettanto vulnerabile a causa della cecità imminente, rivelerà il linguaggio come terreno d’incontro con l’altro, strumento di scambio e comprensione reciproca in grado di lenire i dolori che la vita riserva senza via di scampo. Lungo il percorso la scrittura lirica della Kang si fa man mano sempre più poetica nello stile e anche nell’impaginazione del testo. Cosa che non deve sorprendere perché la scrittrice coreana inizialmente si è fatta conoscere per i suoi versi. Un ritorno alle origini per la Kang, forse il suo modo di superare definitivamente il blocco dello scrittore, sofferto dopo aver concluso ‘La vegetariana’. Testo di Michele Lamonaca Riproduzione riservata
Brevi recensioni letterarie, senza sconti: Il suggeritore di Donato Carrisi

Attorno all’idea originale del serial killer subliminale, ‘Il suggeritore’ di Donato Carrisi abbonda di scene efferate e continui colpi di scena che nascondono, come polvere sotto il tappeto, buchi evidenti nella trama. Romanzo d’esordio di Donato Carrisi, pubblicato nel 2009, ‘Il suggeritore’ ha riscosso un successo enorme. Un inizio di carriera travolgente per lo scrittore pugliese che nel tempo si è affermato come migliore autore italiano e stella internazionale del thriller psicologico. L’idea di partenza attorno alla quale Carrisi ha costruito il suo castello narrativo è quella del serial killer subliminale, un individuo votato al male e dotato di intelligenza superiore, in grado di manipolare discepoli inconsapevoli, nei quali precedentemente ha riconosciuto potenzialità omicide, inducendoli a commettere efferatezze ed escludendo allo stesso tempo ogni indizio o prova di complicità a suo carico. Il suggeritore di Donato Carrisi: pro e contro Nel romanzo le vittime sono bambine scomparse e poi ritrovate senza vita in scene del crime atroci, disturbanti. Gli investigatori ingaggiano una lotta contro il tempo, nel tentativo di salvare la sesta bambina strappata ai suoi genitori, che si presume sia ancora in vita. Carrisi è bravo nell’evocare atmosfere cupe, angoscianti, sfornando un progressione di colpi di scena che stordiscono e sconvolgono incitando alla lettura. La buona caratterizzazione della protagonista, la poliziotta Mila Vasquez, e l’accurata ricostruzione dei metodi di indagine utilizzati dalla polizia scientifica, reggono il gioco. Ma più si va avanti e più gli snodi narrativi appaiono eccessivi e forzati. A un certo punto si assiste alla comparsa di un personaggio dalle capacità medianiche che dà una mano a sbrogliare la matassa. Qui la sensazione che ‘il patto con il lettore’ venga tradito è molto forte. La sospensione dell’incredulità scricchiola in maniera pericolosa, intanto i colpi di scena proseguono inarrestabili fino all’ultima pagina. Al termine della lettura, quando le suggestioni che sono il punto forte del romanzo evaporano, rimangono in piedi i quesiti inevasi e le incongruenze della storia. Il piano assai complesso partorito dal killer subliminale, che a quanto pare è stato messo in piedi nel corso di tantissimi anni ad uso e consumo della sola Mila Vasquez, presenta buchi evidenti, pur rappresentando la nervatura principale della storia. Il legame tra manipolatore e adepti, e i collegamenti tra questi ultimi sono appena accennati, lasciati ad intendere ma inesplorati. Una concatenazione essenziale di eventi che viene sottaciuta, instillando in chi legge una sensazione di disorientamento senza sbocco finale. Il risultato è un romanzo che fa troppa leva sulla messa in scena horror, dimenticando la necessità propria dei thriller di risolvere se non tutti, almeno la gran parte degli elementi che costituiscono la trama, a partire da quelli più salienti. Un debito verso il lettore che merita di veder ricuciti gli strappi inflitti alla sua coscienza da accadimenti aberranti, evitandogli la comoda e deludente soluzione dell’inesplicabile. Testo di Michele Lamonaca Riproduzione riservata